Ricapitolando: il primo tastierista a percussione (o, se vogliamo, percussionista a tastiera) jazz è stato Red Norvo con il suo xilofono. Poi è arrivato Lionel Hampton che, con il suo successo, ha imposto il vibrafono costringendo lo stesso Norvo ad abbandonare lo xilofono per il nuovo strumento a piastre metalliche.
Alla fine degli anni quaranta si segnalò il nuovo fuoriclasse del vibrafono: Milton Jackson, classe 1923.
In realtà, Jackson era stato preceduto da Marjorie Hymas e Terry Gibbs nel linguaggio bebop, ma la Hymas suonò solo nel quintetto di George Shearing e poi abbandonò la scena concertistica, mentre Gibbs – di cui si dovrà parlare per esteso – suonava in modo molto vicino ad Hampton, pure usando il linguaggio be-bop.
Jackson aveva cominciato la carriera musicale come cantante in un gruppo gospel, dopo avere suonato nel liceo musicale un po’ di tutto: dalla chitarra, al pianoforte ed al vibrafono. Il grande trombettista Dizzy Gillespie lo ascolta al vibrafono e lo ingaggia: siamo nel 1946 ed è l’inizio di una carriera mirabile.
Il vibrafonista cresce e suona insieme a tutti i grandi del bebop e ne assimila tutte le loro idee melodiche, ritmiche ed armoniche che restituisce con una cantabilità ed una perfezione insolita.
Miles Davis sosteneva di essere troppo vanitoso per lasciarsi dietro qualche nota sbagliata. Ma, in realtà, le stecche di Davis giovane sono numerose, mentre Jackson è di un perfezionismo assoluto che lo spinge anche ad una ricerca incessante sui battenti da usare per avere un suono sempre più bello, vellutato ed espressivo come nessuno altro vibrafonista è mai riuscito ad avere.
Ma la fortuna di Jackson è legata al suo compagno di lavoro, il pianista John Lewis: i due, insieme al bassista Ray Brown ed il batterista Kenny Clarke, costituiscono la parte ritmica del sestetto di Dizzy Gillespie completato da alcuni dei migliori sassofonisti bebop.
Lewis ha idee musicali e professionali per il quartetto, rinunciando agli strumenti a fiato. Cioè, vuole proporsi alla stregua di un quartetto d’archi classico nell’ambito della musica concertistica, usando la cura e la sottigliezza della musica da camera bachiana.
Jackson, Lewis, Brown e Clarke incidono alcuni brani nel 1952 dove il pianista ed il vibrafonista tentano di realizzare le loro idee, poi ognuno dei musicisti accetta altri incarichi e sembra che sia la fine di tutto.
Non è così: il pubblico e la critica sono affascinati da quelle incisioni e Jackson e Lewis sono invitati a realizzare il loro progetto.
Le incisioni sono state pubblicate come il Milton Jackson Quartet, d’ora in poi si chiameranno Modern Jazz Quartet con una divertente coincidenza di lettere iniziali.
Ray Brown, che lavora con il pianista Oscar Peterson, è rimpiazzato da Percy Heath, mentre Kenny Clarke, che ha deciso di trasferirsi in Europa, viene sostituito da Connie Kay, ex-batterista di Lester Young.
Il favore del pubblico è totale e, soprattutto, sembra una conquista che un quartetto di afro-americani si esibisca nelle sale da concerto.
La critica ed i musicisti hanno pareri discordi, ma nessuno nega la grandezza solistica di Jackson e la bellezza dei temi di Lewis.
Il quartetto va avanti per venti anni, quando Jackson si dichiara insoddisfatto della sua posizione economica e lascia il gruppo che Lewis subito scioglie.
Il vibrafonista – durante questi venti anni – aveva continuato a lavorare sotto il suo nome, incidendo copiosamente con alcuni dei maggiori solisti bebop. Alcune di queste incisioni erano piaciute come ‘Opus De Jazz’ con il flautista Frank Wess oppure un incontro con John Coltrane. Ma forse le migliori cose le aveva realizzate aggregandosi al trio di Oscar Peterson, dove ritrovava l’amico di sempre: il bassista Ray Brown.
Tuttavia, nessuna di queste pregevoli incisioni aveva il successo internazionale del Modern Jazz Quartet. Jackson sperò che, lasciando il gruppo, il suo nome potesse salire allo stesso livello dei pianisti, chitarristi, trombettisti o sassofonisti, ma dovette arrendersi alla limitata popolarità del suo strumento.
Aveva ragione ad essere deluso: nessuno musicista può competere con lui per controllo del suono, invenzione melodica, swing , cultura jazzistica, cantabilità ed intensità espressiva. Il tutto condito da un orecchio perfetto e da una memoria prodigiosa.
Nel 1982, Jackson comunicò a Lewis che era disposto a ricostituire il quartetto. Le incisioni di quell’anno dimostrano che tutti erano felici che si fosse ritrovata la voglia di stare e suonare insieme.
Nel frattempo Jackson si legava al manager di Peterson Norman Granz – per le sue sortite solistiche.
E si arriva così ai giorni nostri: Jackson aveva arricchito il suo vocabolario con l’esperienza modale, mentre rigettava il free-jazz, dichiarando più volte che la cosa più importante era il beat, il classico battito della chiesa afro- americana (gospel), coniugato con il blues e le ballate romantiche.
Si è spento, probabilmente confortato dalla sua fede, ma malinconico sul futuro della sua visione jazzistica.
La sua influenza sui vibrafonisti è totale: anche chi è venuto prima di lui ha incorporato alcuni suoi stilemi. Ma resta il fatto che sono quasi sempre virtuosi della percussione, mentre Milton Jackson – come Bill Evans, come Miles Davis – trascende il suo strumento e ne fa una proiezione dell’anima, del suo canto interiore.
(Nino De Rose)
Discografia essenziale
Milton Jackson ha inciso moltissimo. Lo faceva volentieri e lo aiutava una prodigiosa memoria auditiva.
Diciamo subito che tutti i dischi del Modern Jazz Quartet sono musicalmente interessanti: dalla Prestige all’Atlantic, alla Phillips, alla Apple (proprio la casa dei Beatles !), alla Pablo eccetera. In ognuno di essi ci sono brani eccellenti, ma lo scrivente predilige gli album ad alto contenuto bebop come “Blues At Carnegie Hall”.
Mentre, sotto il suo nome, vanno segnalati:
“Opus De Jazz” con Frank Wess, “Bags Opus” con Art Farmer e Benny Golson,“Bags & Trane” con John Coltrane, “At the Museum Of Modern Art” con James Moody al flauto, “Soul Fusion”, Memories Of Monk” e “Mostly Duke” con il pianista Monty Alexander e tutti i dischi con il pianista Oscar Peterson fra cui uno in duetto che si chiama “Two Of The Few”.