Chi è stato il primo a suonare il vibrafono in un contesto “latino”, ovvero di musica del centro e sud americani?
La disputa è fra il portoricano Tito Puente e lo scandinavo Cal Tjader, ma sicuramente Tjader va considerato colui che ci ha creduto di più. Tanto che oggi un Dave Samuels fa mille sforzi per proporsi suo erede… ma la storia è spietata: ormai i giochi sono fatti… anche se Samuels è un eccellente musicista…
All’inizio degli anni cinquanta, il mambo ebbe un impatto fortissimo: persino il nostro Armando Trovaioli sfondò scrivendo un mambo nella sua prima colonna sonora… ad Ava Gardner e Rita Hayworth, l’Italia rispondeva con Silvana Mangano…
Tito Puente e George Shearing fecero molto e bene, ma Cal Tjader, uscito da Shearing, assunse sistematicamente musicisti cubani o musicisti innamorati del genere come Clare Fisher e lasciò un numero importante di standards: da “Afro Blue” a “Morning” e così via…
Ovviamente la storia del “latin jazz” non limitata al vibrafono deve ricordare Dizzy Gillespie, Chano Pozo e Machito.
Cal Tjader ebbe il merito di partire dal mambo per poi aggiungere qualsiasi stilema ritmico del centro e sud america e tenere la porta sempre aperta a qualsiasi musicista del luogo che volesse lavorare con lui.
Per anni nessuno tentò di rivaleggiare con Tjader anche se qualche vibrafonista apparve nel giro “latino” ad affiancare Puente: Pedro Gutierrez, Felipe Diaz, Willie Coleman, Louie Ramirez, Ricardo Marrero… e tutti i grandi vibrafonisti statunitensi incisero qualcosa di “latino”, ma forse solo Dave Pike ha alternato, come Tjader, incisioni bop ad incisioni come “Manhattan Latin”…
Ma la definitiva consacrazione del vibrafono come strumento “latino” avvenne negli anni ottanta, quando il grande argentino Astor Piazzolla volle Gary Burton a suonare con lui… niente improvvisazione, tutto meticolosamente scritto… ci fu una ovazione unanime da ogni parte del mondo.
Da quel momento molti vibrafonisti decisero di adottare le americhe nel suo complesso come base del loro repertorio. In altri termini: di usare tutto ciò che aveva prodotto il crogiuolo di culture nelle Americhe.
Così si fecero notare altri “latini”: Rubèn Estrada, Sonny Rivera, Chico Mendoza, Bobby Montez, Valarie Naranjo, Garth Rodriguez, Bobby Paunetto e, soprattutto, Victor Mendoza.
Mendoza insegna alla Berklee di Boston esattamente “Latin Jazz” e lo fa ormai da decenni.
Questo significa che si è riconosciuto che suonare jazz su una ritmica “latina” è un vero e proprio genere, come il bebop, la fusion, il free e così via.
Dal punto di vista dello strumento, Mendoza impugna quattro bacchette come Gary Burton, ma usa il motorino delle alette come Tito Puente o Cal Tjader… anche il suo solismo sembra operare una sintesi fra questi tre grandi, con una evidente attenzione alla coralità di questo genere.
Mendoza non focalizza la musica sul suo solismo: come Puente, vuole sentire un gruppo che suona quasi in maniera democratica.
Le sue melodie ricordano quelle di Mike Mainieri o anche di Keith Jarrett (quest’ultimo scrisse una deliziosa bossa per Airto Moreira, “Lucky Southern”).
Nelle sue incisioni “This Is Why” e “If Only You Knew”, Mendoza può essere avvicinato agli Steps di Mainieri, ma dove gli Steps sono “duri” come il rock docet… Mendoza è grintoso ma in modo affettuoso e melodico come dettano le sue radici messicane…
E questa sorta di affettuosità si nota anche nel video non solo didattico prodotto da Gary Burton: “Latin Jazz Grooves with V.M.”.
Qui Mendoza dimostra di essere un eccellente insegnante: parla lentamente e chiaro e spiega ogni piccolo dettaglio di questa musica. Segue un concerto ottimo ed altrettanto esplicativo.
E’ un video consigliabile a tutti (anche agli studenti di lingua anglo-americana…).
Victor Mendoza è differente dagli altri ben noti jazzmen ispanici.
Gli altri sono attratti dall’idea di competere con gli strumentisti statunitensi, mentre Mendoza vuole esporre un ‘feeling’ e ciò lo pone come il vero continuatore di Tito Puente.